F F Tribuna Libera: CEGLIE NON E' UNA CITTA' RAZZISTA

martedì 22 novembre 2016

CEGLIE NON E' UNA CITTA' RAZZISTA







Noi cegliesi siamo razzisti? Questa è una domanda che ho visto girare in queste ore sui social, dopo la pubblicazione del post di ieri sui 25 migranti, donne e bambini, che saranno ospitati in una struttura religiosa cegliese. Un post relativo ad una meravigliosa azione di solidarietà che, incredibilmente, ha causato una discussione dai tratti molto forti e, in alcuni casi, deliranti. Una delle considerazioni più gettonate è stata: “perché pensare agli immigrati con i tanti cegliesi che hanno difficoltà economica?”. Come si dice a Ceglie, mischiando “fave e fogghie”. La discussione è sulla community CLICCA QUI
Fortunatamente abbiamo avuto modo di leggere anche considerazioni più equilibrate e ragionevoli sempre a commento. 




Pare che quella discussione abbia fatto abbastanza clamore e, dunque, è doveroso e opportuno tornare sul discorso. Intanto, alcuni amici mi hanno chiesto: perché “non cancellare tutto”? Guardate, anche io ho provato un forte disagio (uso un eufemismo) nel leggere alcune affermazioni ma cancellare quelle considerazioni, espressione di un clima di opinione che in strati anche della nostra popolazione purtroppo esiste, avrebbe contribuito forse ad annullarli? No, penso che invece bisogna confrontarsi, precisare e far emergere come stanno le cose, controbattere ai facili populismi.

Esiste una differenza tra immigrato, rifugiato e richiedente asilo (vi allego un link che spiega meglio tante cose). Le persone ospitate a Ceglie sono donne e bambini richiedenti asilo, un diritto riconosciuto dalla convenzione internazionale di Ginevra, in casi di persone in fuga da regimi contro la loro libertà o provenienti da territori in guerra. Esiste un fondo ordinario del Ministero dell’Interno destinato a questo (oltre a fondi europei). “Perché non li prendi a casa tua?” ha scritto qualcuno. Una risposta articolata (non mia ma che condivido) ve la posto qua sotto.


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E poi abbiamo dovuto leggere frasi estemporanee del tipo “sono clandestini e nullafacenti”, “aiutate prima i cegliesi che non hanno lavoro e poi loro”, “pensate ai cegliesi che hanno bisogno, siete moralisti falsi e maledetti”; c’è addirittura chi ha invocato il ricorso all’esercito. Questo per venticinque tra donne (anche incinta) e bambini in fuga dalla guerra e dalla distruzione di ciò che avevano! 

Le persone ospitate a Ceglie provengono dalla Somalia, paese in guerra per anni (con l'intervento anche della comunità internazionale), oggi ancora diviso in varie fazioni tra cui quella islamista (oggi in Somalia è presente e sempre più radicato anche un gruppo legato all'Isis) in lotta violenta tra loro.

Queste persone dunque non sono venute qui per motivi di lavoro o per fare una vacanza a spese nostre: sono persone richiedenti asilo politico. Proviamo a porci una domanda: e se fosse capitato a noi? Vedere il proprio paese in guerra, i propri cari morire, la propria casa distrutta … che faremmo? Sarebbe una scelta facile abbandonare la propria terra, il proprio Stato, tutto quello che si ha per raggiungere un luogo sconosciuto a migliaia di chilometri, mettendo sé stessi e i propri bambini su una carretta del mare senza sapere se si riuscirà ad approdare vivi in un luogo dove saremmo anche odiati? Pensiamo che lo facciano col sorriso sulle labbra oppure con la paura?


L’anno scorso tutti ci siamo commossi nel vedere sulla costa italiana il cadavere del piccolo Aylan, in fuga con la sua famiglia dalla guerra in Siria. 






Poche settimane fa in tanti ci siamo indignati nel vedere in tv le barricate di una intera città, Goro, contro dodici poveracci, donne e bambini, che dovevano essere accolti secondo le direttive statali. Hanno eretto barricate fisiche ed è dovuto intervenire l’esercito. Davanti al televisore, eravamo tutti (o quasi) contrari.




Oggi vogliamo che anche Ceglie sia così? No, non lo si può accettare.


No, non è questa la vera Ceglie, la gran parte della nostra città. Quella che magari non scrive sui social, ma che ha un grande cuore ed è terra di solidarietà ed accoglienza. La terra da cui, in migliaia e migliaia, decenni fa sono andati via (e purtroppo ancora oggi vanno via) verso Paesi lontani. Non per guerra o per persecuzione certamente, ma per fame e assenza di futuro, che a volte può essere ugualmente drammatico.

Ad oggi, nel 2016 sono oltre 2500 i cegliesi sparsi nel mondo (parliamo di quelli che si sono volontariamente registrati nell’apposito albo, ancora di più quelli effettivamente lontani). Ne abbiamo parlato la scorsa settimana. In ogni famiglia si contano emigrati cegliesi. Chi di loro è stato felice di dover lasciare la propria terra, i propri affetti per una vita lontano, nella gran parte dei casi per sempre? Chiedete loro le difficoltà ad essere accettati, soli e in posti a volte ostili, chiedetegli dei tempi in cui “non si affittavano stanze ai terroni”, chiedetegli se non avrebbero preferito restare a casa loro se avessero potuto. Ma erano lì, in cerca di un futuro migliore per sè e i propri figli.

E, moltiplicando per cento drammaticamente questi sentimenti provati da tanti cegliesi, cerchiamo di capire la sofferenza e il dramma di queste persone che chiedono solo asilo, sapendo con sofferenza di non poter restare a casa loro, in terre lontane e così diverse. Quante sono le colpe di noi occidentali, europei (e anche italiani) – non solo colpe dirette ma anche omissioni – per la loro situazione attuale?


Per questo ringrazio le suore che li hanno accolti, ribadendo (e sono certo di non essere il solo cegliese a farlo), a questi nostri fratelli e sorelle: 


Benvenuti nella nostra comunità!


















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